Brano estratto dal Capitolo I par. 1 ” Diritto e Benessere animale”:
Diciamo subito che l’animale oggetto delle normative sulla “protezione” e il “benessere” non ha per le stesse un valore intrinseco, ma un valore in relazione a ciò per cui serve, quindi, è importante solo se ha un’utilità.
Questo risulta subito chiaro leggendo l’art 13 del TFUE, che analizzeremo nel cap. 3 par. 3.
Le normative sul benessere animale sono fortemente condizionate da una prospettiva antropocentrica e vedono coinvolti una molteplicità di attori: le Istituzioni, i produttori, i cittadini, i consumatori e i consum-attori del cambiamento che attuano attraverso le scelte alimentari.
Questi si dividono in: coloro che non mangiano alimenti che derivano da animali e/o i loro derivati, quelli che mangiano carne e derivati animali che però sono sensibili al processo produttivo (e che quindi sono anche disposti a spendere di più purché vengano rispettati determinati standard di qualità che si riflettono in un maggiore benessere per gli animali) e, infine, quelli che non hanno nessun interesse ad assicurare il benessere agli animali e non sanno neanche cosa sia.
Stefano Rodotà ci ricordava, in uno dei suoi bellissimi libri, che viviamo in una società satura di diritto, di regole giuridiche che provengono da tante fonti, pubbliche e private, ma avvertiva: “la consapevolezza sociale non è sempre adeguata alla complessità di questo fenomeno, che rivela anche asimmetrie e scompensi fortissimi, vuoti e pieni, con un diritto invadente in troppi settori e tuttavia assente là dove più se ne avvertirebbe il bisogno” (Rodotà S., La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, 2006, p. 9) e che: “Il diritto, dunque, può entrare nella vita in modi assai diversi, legati al modo in cui può essere usato. Se vi è una lotta per il diritto, degna di essere combattuta e vissuta, vi è pure una lotta con il diritto che la vita ingaggia in ogni momento” (Rodotà S., cit., 2006, p. 51).
Come vedremo, sotto l’ombrello delle normative sul benessere e la protezione animale trovano spazio le asimmetrie di cui parla Rodotà: tante fonti diverse, poche regole, molta policy, poca effettività e ancor meno efficacia.
Per vedere rispettato il diritto alla non sofferenza degli animali, che a una prima occhiata sembrerebbe essere il presupposto fondante di queste normative, anche se, come vedremo il presupposto è altro, bisogna ingaggiare una lotta serrata. La lotta è impari, diciamolo subito, e vede, da un lato, animali che da soli non possono difendersi, accanto ai quali ci sono degli esseri umani che stanno cercando di fare la rivoluzione al posto loro (Caffo L., Il maiale non fa la rivoluzione, 2016) e, dall’altro, la società che ne rivendica il dominio con argomentazioni variabili a seconda del contesto e della latitudine.
Al centro di tutto c’è l’animale che rimane, per il diritto, una cosa, una res, un oggetto di proprietà, un mezzo per il raggiungimento di un fine umano (Castignone S., Nuovi diritti e Nuovi soggetti. Appunti di bioetica e biodiritto, 1996; Epstein R.A., Animals as objects, or Subject, of Rights, 2006; Gasparre A., Degli animali&Della famiglia (ovvero) gli animali nel Libro I del codice civile, 2015).
Il fine umano è, nel caso degli animali da allevamento, destinati a diventare o a produrre cibo, quello di garantire un prodotto sano ed evitare il diffondersi di zoonosi.
Per raggiungere questo obiettivo, all’animale viene concesso un po’ più di spazio, e qualche altra cosa, definito arricchimento, che consenta allo stesso di non arrivare ad una situazione di malessere e di forte stress poiché, come vedremo in seguito, ciò è considerato un fattore di rischio per la salubrità del prodotto di derivazione animale e anche per la diffusione di zoonosi.
Le normative consentono veri e propri maltrattamenti, che sono considerati necessari in questo contesto e sulla cui valutazione torneremo successivamente, come è il caso delle gabbie di gestazione delle scrofe da latte, del trasporto degli animali al macello, il macello stesso, la castrazione dei suinetti senza anestesia, il debeccamento delle galline, la triturazione dei pulcini vivi, l’allontanamento del vitello appena nato dalla madre e così via.
Infatti: “per il diritto positivo europeo, questo intellettuale pesante che rappresenta con autorevolezza centinaia di milioni di cittadini uniti nel più grandioso crogiolo politico della storia, a) sul piano del fatto, o della ragione teoretica, gli animali sono esseri senzienti, dotati di soggettività, capaci di provare benessere e malessere, dolore anche grave o atroce, ripugnanze e preferenze coscienti; b) sul piano del valore, o della ragione pratica, i dominatori umani sono tenuti come minimo a non causare loro sofferenze inutili o evitabili, a garantirgli, in positivo, tutto il benessere compatibile con la loro sorte di schiavi o di strumenti”(Lombardi Vallauri L., Testimonianze, tendenze, tensioni, del diritto animale vigente, in Trattato di biodiritto. La Questione animale, 2012, p. 264).
Nell’ambito della discussione dottrinale, sono diverse le posizioni che si contrappongono, una di queste, portata avanti da Gary Francione, mira all’abolizione delle gabbie (Francione Gary L. & Garner R., The animal rights debate. Abolition or regulation?, 2010). L’argomentazione a favore di questa tesi si può sintetizzare nella conclusione a cui giunge: dal momento che gli animali sono essenzialmente un oggetto di proprietà, essi sono beni economici, pertanto le normative sul benessere animale proteggono gli animali in misura molto limitata non riducendo la sofferenza in alcun modo che sia significativo.
L’approccio welfaristico è rassicurante per il pubblico tanto da giustificare lo sfruttamento animale. Francione, pertanto, si chiede come le associazioni animaliste possano sostenerlo dal momento che questo mantiene lo status quo per il quale è accettabile che l’essere umano usi gli animali per certi fini per i quali nessun essere umano accetterebbe che altri esseri umani siano usati anche se il trattamento fosse “umano” e se fossero evitate le sofferenze “non necessarie”.
L’argomento di Francione non ammette mezze misure a differenza di quello di David S. Favre, il quale, invece, suggerisce un approccio “a tappe” per piccoli passi. Secondo Favre non si può parlare attualmente di diritti per gli animali ma solo di interessi rilevanti (Integrating Animal Interest Into Our Legal System, 10, Animal L., 2004, p.87-97).
Parzialmente diversa è la posizione di Alasdair Cochrane, che nel suo Animal Rights Without Liberation: Applied Ethics and Human Obligations. Critical Perspectives on Animals, 2012),sostiene che gli animali non possano avere diritti semplicemente perché non hanno un interesse intrinseco alla libertà, e quindi hanno interessi basati sui diritti, ossia il diritto a non soffrire e quello alla vita, ma non alla libertà. In quest’ottica è sufficiente imporre stretti doveri all’essere umano, ma tra questi non rientra quello di liberarli, poiché molti animali non hanno nessun interesse ad essere liberi e corrispondentemente non esiste nessun dovere da parte dell’essere umano di farlo.
Mentre Francione opta per una soluzione definitiva che punta alla libertà totale dell’individuo animale, Favre introduce il concetto di proprietà responsabile, pur entro la cornice dell’attuale considerazione dell’animale, Cochrane cambia la cornice, ma rimane in una posizione welfarista dove però non esistono i macelli e gli allevamenti intensivi.
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